Non si può descrivere un cuore impazzito dalla felicità». «Ora sorridere ha un altro significato». «Senza Dynamo non sorrido». Queste sono solo alcune delle testimonianze di chi è stato al Camp. Un’altra parte infinitesimale la potete leggere sui volti pubblicati in questa pagina. Risate incontenibili destinate a restare impresse per sempre nella mente. Divertimento allo stato puro. Attimi in cui tutto diventa impalpabile e leggero. Ma per consentire a questi bambini e ragazzi di continuare a vivere momenti simili, è necessario sostenere Dynamo Camp. Si può farlo in tanti modi, con semplici gesti: con donazioni singole o regolari, destinando alla Fondazione il 5×1000, organizzando raccolte fondi, per esempio, in occasione del proprio compleanno, oppure scegliendo le bomboniere e i regali solidali. Il motivo? «Perché quello che tu ricevi in cambio non è solo il sorriso di un bambino ma il senso di appartenenza a una comunità viva, che ti stringe con il suo abbraccio». Lo sostiene Davide Bleve, avvocato genovese che ha deciso di destinare alle attività di Dynamo, specialmente ai City Camp del capoluogo ligure, parte di un lascito voluto da Sandra Arosio, sua concittadina, ex professoressa scomparsa nel 2022 e conosciuta una ventina di anni prima.
Avvocato Bleve, che persona era la signora Arosio?
«Era una genovese Doc, molto riservata. Con il tempo riuscimmo a instaurare un rapporto di stima e fiducia reciproca, ma mai di particolare confidenza. Era tanto severa e introversa quanto determinata a fare del bene. La sua passione filantropica nasceva da lontano quando ha cominciato a supportare economicamente decine di bambini africani con i programmi di adozione a distanza. Nel tempo, ha maturato la convinzione di ampliare il progetto a scopi umanitari e filantropici più profondi. Quindi, cominciai ad aiutarla a prendere contatti con alcune associazioni, selezionando progetti meritevoli di sostegno da parte sua. Venne a mancare proprio nel periodo in cui tutti i media parlavano del Pandoro Gate e Massimo Gramellini, che raccontò la sua storia sulle pagine del Corriere della Sera, diede di lei una definizione calzante: “un’influencer silenziosa”».
Al suo posto, avvocato, in molti avrebbero destinato l’intera somma a un solo progetto, per non pensarci più. Lei ne ha fatto una ragione di vita.
«A quel punto non mi sono sentito solo un braccio operativo come in realtà sono, ma anche il custode delle sue intenzioni, dei suoi valori. Il suo è per me prima di tutto un lascito morale, direi anche sentimentale. Ho scelto quindi di vivere questa esperienza in presa diretta. Ho colto questa opportunità come un’occasione di vita: non solo per rispettare una volontà, ma per entrare in un mondo che, senza di lei, forse non avrei mai conosciuto così a fondo».
Lei, fra l’altro, ha conosciuto Dynamo Camp dopo la morte della signora. Che cosa l’ha convinta a finanziarne le attività utilizzando il lascito?
«Sono stato invitato a visitare il Camp e dopo aver visto con i miei occhi tutti quei sorrisi, mi è sembrato naturale associare la passione della signora per la formazione e lo svago dei giovani alle attività di Dynamo».
Che cosa avrebbe detto la signora se fosse stata al Camp?
«Non era certamente il genere di persona che si sarebbe esposta in prima persona, per esempio proponendosi come una vostra volontaria, ma sicuramente le sarebbe piaciuta l’idea di supportare i City Camp della sua città, alleviando gli animi di tanti genitori provati da situazioni difficili. Leggendo le tante lettere di ex studenti ritrovate a casa sua, in cui a distanza di molti anni ricordavano ancora la sua severità ma con gratitudine, ho pensato che Dynamo fosse il progetto più adatto a prolungare il suo impatto positivo sui ragazzi. Inoltre, quando era in vita, la signora aveva già cominciato ad aiutare persone ai margini della società, come rifugiati e senzatetto. Ho ravvisato in questo aspetto un ulteriore parallelismo con Dynamo perché i genitori dei Camper vivono costantemente in situazioni difficili da gestire e spesso si sentono emarginati dal contesto sociale, in quanto non possono vivere come gli altri».
Che cosa direbbe per persuadere altri a seguire il suo esempio?
«Convincere non è semplice: per riuscirci bisogna appassionarsi a un progetto, credere davvero nello scopo che si persegue. Per me la chiave è stata una sola: poter toccare con mano la gioia dei Camper. Vedere il sorriso rinascere sul volto di un ragazzo o di una ragazza, con un piccolo sforzo che ciascuno di noi può fare, è l’esperienza più convincente di tutte».
Crede che, in tema di lasciti, ci sia ancora troppa ritrosia perché la morte è un tabù per la maggior parte di noi?
«I limiti psicologici impediscono a molti di affrontare non solo il “dopo di noi”, ma anche la pianificazione patrimoniale e successoria. Se vissuto passivamente, il lascito diventa un peso da rimandare il più possibile. Se invece lo si affronta come un atto consapevole, che include sia la dimensione imprenditoriale sia quella filantropica, allora diventa un’estensione di sé: un modo per proiettarsi oltre il momento del passaggio, trasformandolo nell’ultima tappa naturale di un percorso di dono».